mercoledì 28 dicembre 2011

L'ignoranza dei Nisseni

Il solito luogo comune vuole, che i Nisseni lamentandosi a torto, dicano che a Caltanissetta non ci sia nulla da vedere.
Tutto questo, all’occhio di chi è attento, appare falso e soprattutto ignorante.
Il Nisseno è per sua natura Ignorante, ma qui per ignoranza parlo proprio della natura stessa della parola, ovvero “ignorare qualcosa”, ed in questo caso, il Nisseno, ignora il patrimonio della sua città, e quindi con esso la sua storia. Il non conoscere la storia di Caltanissetta deriva di conseguenza dal poco amore che i cittadini hanno per il loro capoluogo. Quindi, riassumendo, i Nisseni non amano Caltanissetta.
Se così non fosse, se provassero infatti interesse per i luoghi e la loro storia, sarebbero più attenti ed attivi per cambiare le sorti di questo centro depresso.
Caltanissetta ha fama di essere un’isola di noia, ma non è il tessuto urbano con le sue strade ed i suoi palazzi ad essere maledetto, il profilo di una città  non è forse delineato da chi la abita? Non è forse la vivacità e vitalità dei cittadini a definire l’anima di un luogo?
Dunque, se Caltanissetta soffre di un male, l’origine va ricercata nei suoi abitanti ed in nessun altro.
Per sostenere una tesi, devo anche portare delle prove, partiamo dunque, a conferma di questo mio pensiero, alla scoperta di un tour insolito ma reale, un tour che vuole portare il lettore a prender coscienza del suo patrimonio.
Immaginate di essere su di un auto, provenite da Enna e percorrete la SS122, superato il confine della provincia, vi troverete a passare su Ponte Capodarso, questo ponte, come pochi sanno, fu costruito dagli Spagnoli circa 500 anni fa, sotto l’Imperatore Carlo V, quando la Sicilia faceva parte dell’enorme Impero Spagnolo. Ponte di alta ingegneria se visto nel contesto del nostro entroterra cinquecento anni fa.
Il Ponte in questione, attraversa una riserva naturale, quella dell’Imera, una magnifica gola in tufo scavata da un fiume. Poco conta se prima i politici delle scorse amministrazioni hanno fatto passare, sopra quel fiume, un tratto dello scorrimento veloce per Gela, e poi hanno autorizzato la riserva. Sappiamo infatti che il politico, per sua natura, è disonesto ed incurante verso il territorio, quindi si è comportato come ha meglio creduto, svolgendo appieno il suo ruolo.
Continuando a salire, attraversiamo paesaggi mozzafiato, con antiche case in rovina che fanno da guardia ad olivi e mandorli secolari.
Si passa quindi sotto monte Sabucina, una splendida roccia che al tramonto si colora di rosso, la stessa roccia con la quale sono costruiti quasi tutti i palazzi della Sicilia occidentale e che di recente è stata utilizzata per la ricostruzione della Cattedrale di Noto, e non distante troviamo il sito archeologico omonimo, anch’esso in cattivo stato, dimenticato, come tutto del resto.
Continuando in direzione di Caltanissetta, troviamo le miniere di zolfo, archeologia industriale che da anni, a detta dei Nisseni, dovrebbero essere adibite a museo, ma il popolo stesso non sa dove esse siano.
All’altezza del Villaggio S.Barbara, troviamo Terrapelata e le sue Maccalube. Un sito unico nel suo genere che accoglie dei vulcanelli di fango, un fenomeno rarissimo, che moltissimi Nisseni ignorano.
Di questo genere di vulcani ne abbiamo solo tre in Italia, uno è in Emilia-Romagna, gli altri due in Sicilia. Ma mentre due di questi sono stati adibiti a riserve naturali, attirando ogni anno migliaia di turisti, in quello di Caltanissetta, manco a dirlo, si è preferito creare una discarica a cielo aperto: ditemi se questo non è un caso di ignoranza verso un nostro patrimonio e di conseguente mancanza di amore e rispetto verso il territorio.
Ma proseguiamo il nostro viaggio, subito dopo aver lasciato le Maccalube di Terrapelata al loro triste destino, raggiungiamo il vecchio stabilimento dell’Amaro Averna, vanto per Caltanissetta e splendido esempio di Archeologia industriale ancora in uso!
Infine, non distanti l’uno dall’altra, troviamo il museo archeologico di Caltanissetta e la ben nota Abazia di S.Spirito, una chiesa Arabo-Normanna unica nel suo genere e che ospita manufatti di epoca Romana, Araba, Normanna e Spagnola. Quasi duemila anni di Storia Siciliana sono racchiusi in questo piccolo scrigno di pietra di Sabucina.
Tutto questo si trova alle porte di Caltanissetta, in un lungo percorso cominciato con un Ponte Spagnolo e terminato in un’abazia Arabo Normanna.
Evito adesso di spingere la nostra passeggiata sin dentro il tessuto urbano, questo al solo fine di non annoiare troppo i lettori con descrizioni del patrimonio.
Questo piccolo tour ad occhi aperti, ha il solo scopo di far prendere atto ai nostri concittadini che Caltanissetta ha molto da offrire e che sono poche le città che possono vantare un percorso culturale e paesaggistico come quello appena descritto.
Certo, nessuno qui vuol fare paragoni con altri Centri, che di certo, hanno un patrimonio ben più ricco del nostro, ma non possiamo nemmeno affermare che la nostra città non abbia  nulla da offrire perché questo non è assolutamente vero.
Bisogna quindi prendere coscienza della nostra storia, per dare a noi stessi un’identità che possa aiutarci a trovare la forza  per rimboccarci le maniche ed iniziare una restaurazione che può solo avvenire grazie alla volontà dei cittadini.
Come ho già scritto infatti, la città è composta dai suoi abitanti, sono quindi loro a determinarne la buona e la cattiva sorte.
Non a caso, anni fa, con la vecchia giunta comunale, si era pensato bene di instituire l’assessorato all’Identità e Futuro, perché si era già capito che i Nisseni soffrono di un grande male, ovvero quello di aver perso l’identità, e questo porta a non sapere chi si è, e forse anche ad odiare un città che poi così brutta non è.
Solo riprendendo possesso del nostro passato potremo lavorare alla realizzazione di un futuro migliore per tutti noi, ma questo, sembra non interessare ad un popolo immerso da sempre in una strana era del sogno, lontano dalla storia e dai suoi eventi, come se tutto quello che accadesse non fosse legato in qualche modo al loro destino, eppure, in questo torpore secolare, trovano la forza, come fossero dei sonnambuli che parlano nel sonno, di lamentarsi di tutto, senza mai però alzare la testa e mostrare un briciolo di dignità.

venerdì 11 novembre 2011

Poesia è Sottrazione

Su cosa sia per me la poesia, ho le idee chiare: poesia é sottrazione.
Il lavoro del poeta é paragonabile a quello più duro ed intenso dello scultore.

Il poeta cerca di condensare ed esprimere in poche battute, tutte quelle sensazioni ed esperienze da lui accumulate nel tempo oppure appena nate.

Alcune poesie nascono di getto, e come fossero un'unica colata pesante di parole e concetti, vengono riversate sulla carta in modo da formare una prima versione informe del testo, solo allora ci si potrà dedicare alla parte più eccitante e creativa, quella della sottrazione.
Uno scritto va rivisto e reinventato, viene tolto ciò che non serve, eliminate parole inutili e pesanti, viene delineata la figura.


Come uno scultore che già vede nel blocco di marmo la forma umana intrappolata, così il poeta vede nel mucchio di parole la sua poesia.
Lo scultore infila le mani nella pietra e tenta di afferrare la figura per strapparla via dalla sua prigione.
Il poeta gioca di penna come lo scultore di scalpello; la poesia viene scolpita e resa leggera.

La leggerezza nella scrittura é tutto, esiste infatti un rapporto fondamentale fra contenuto e stile.
Non occorrono parole pesanti per esprimere concetti profondi, ma anzi, maggiore sarà il peso dei concetti, più alta dovrà essere la leggerezza della natura delle parole e dello stile dello scritto.
In scrittura andrebbero sempre prese come riferimento le morbide ed agili sculture del Bernini, che sembrano volare noncuranti della loro natura marmorea.

Non c'è nulla di peggio di un testo pesante, dalle parole stucchevoli e dalle strutture claustrofobiche.
Possiamo continuare ad essere duri senza mai perdere la leggerezza, quel rapido scorrere delle parole che ci rende un testo gradevole dalla prima all'ultima pagina
Scrivere testi dal sapore cupo e profetico, é un errore di gioventù, nulla di questo aiuta il lettore, non é certo grazie ai toni di grigio che un pittore rappresenta la tristezza, ma é in base alla quantità di amore che riesce ad infondere alla sua opera.

Dunque, poesia é sottrazione, sottrazione allo scopo di rendere un'opera leggera ma non vuota.

Leggera, ma non priva di consistenza e spessore.

sabato 29 ottobre 2011

Ricordi Ungheresi

Condensare in poche righe un’idea non è mai cosa semplice, eppure il ruolo dello scrittore è anche questo, quello cioè di mettere ordine ai propri pensieri in modo da renderli coerenti ed organici.
Inizio parlando di un’idea, perché il viaggio questo è, una semplice idea, è l’idea che ci portiamo dentro, e che ci facciamo di un luogo ancor prima di averlo visto. L’insieme di notizie, di immagini, e di aspettative: questo è un viaggio prima ancora di diventare tale, è ciò che noi ci aspettiamo che sia, è una semplice idea.
Poi c’è l’idea che ci facciamo durante la visita, quello che prima avevamo costruito nella nostra mente, viene adesso smontato e rimontato, con tutte le delusioni del caso. Quello che adesso notiamo, una volta entrati nella realtà del viaggio, sono le distanze, il tessuto urbano, l’altezza dei palazzi, e la vita che scorre nella sua normalità, perché in fin dei conti, per quanto un luogo ci appaia fatato, una volta lì, non è nè più e nè meno dissimile da casa nostra.
Ma poi c’è una terza idea del viaggio, ovvero quello che ci rimane al nostro ritorno, quell’insieme di ricordi che lentamente prendono forma nella nostra mente, lo sporco va via, e resta un luogo ideale, qualcosa di tanto irreale quanto l’idea che avevamo prima di partire; ma idealizzare un posto fa parte del gioco, serve a rendercelo unico, indimenticabile, perché adesso abbiamo dato il giusto valore alla nostra esperienza.

Ora, dovendo fare un quadro di ciò che per me è ed è stata Budapest, l’impresa in se risulta ardua e forse vana. Il mio primo viaggio fu nell’estate del 2000, e da allora sono tornato nella capitale diverse volte, per periodi brevi e lunghi, credo in totale di aver trascorso lì cinque anni della mia vita.
Quindi per me, l’Ungheria, non è solo un posto di passaggio, ma è un luogo dell’anima, la mia seconda casa, è quella Nazione dove sogno sempre di tornare a vivere, ed è il paese da cui fuggo, perché per me è perfetto, e quindi rischierei di trasformarlo nella mia casa, con tutti gli annessi e connessi.

I soggiorni lunghi sono stati in tutto cinque, e andavano dai quattro mesi ai tre anni, per ogni viaggio si è formata in me una Budapest diversa, perché diversa era la realtà in cui mi trovavo immerso, diversa la mia abitazione, diverso il mio ruolo e stato d’animo.
Forse quella più bella è la Budapest del mio primo anno, il 2000. L’Unione Sovietica era già caduta da tempo, eppure restava molto di quel sistema durato per oltre quarant’anni, quel velo malinconico e triste fatto di vernice laccata nei corridoi dell’università, di auto Trabant che ancora affollavano le strade, delle facciate dei palazzi ancora sporchi. Quando arrivai, ricordo che l’unico monumento che era stato restaurato era il Ponte delle Catene. Adesso invece il centro è stato ripulito, la città appare meravigliosa, ma forse priva di quel fascino decadente che la rendeva unica.

C’è poi la Budapest del 2003, trovata già cambiata, soprattutto notavo le auto nuove di zecca sfrecciare per le strade, non importa che la gente le avesse acquistate a rate, l’occidente era arrivato e tutti ne volevano una fetta.
Io, come sempre, restavo ancorato ai miei palazzi del quartiere Ebraico, la mia piccola isola nell’isola, quel quadrilatero abitato dagli Ebrei, gente splendida che mi avevano accolto nella loro comunità invitandomi a scoprire un pezzetto del loro mondo.

Dei miei soggiorni ricordo i mercati rionali, pieni di frutta triste, sciupata, di limoni quasi ammuffiti provenienti da chissà quali scarti dei mercati dell’Europa dell’ovest, ricordo i cieli alti e tersi ed il freddo entrarti nei polmoni, ricordo le infinite camminate su e giù per le colline di Buda, a godermi i colori dell’autunno, quei colori assenti in Sicilia perennemente baciata dagli alberi sempre verdi.
Ricordo le linee dei tram che dal centro giungevano in periferie anonime, invase dai palazzoni costruiti durante il socialismo, quei tram pieni di anziani, legati alle loro buste di plastica e ai loro ricordi.
Allora passavo le mie giornate al dipartimento di Mongolistica, a godermi la compagnia dei libri che assediavano la piccola biblioteca dove potevo finalmente trovare tutti i testi dedicati ai popoli nomadi ed all’epopea di Gengis Khan. Studiavo il mongolo attraverso libri di grammatica scritti in tedesco, e vagavo da una biblioteca all’altra in cerca di testi da fotocopiare e conservare.
Sono stati anni di vero nomadismo urbano, mi trovato all’estero, a fare ricerca sui popoli nomadi, in una nazione fondata da nomadi! Non potevo chiedere di meglio! Ero esattamente dove volevo essere!
Frequentavo la biblioteca dell’Accademia delle scienze, quella del castello, della Central European University, la Szabo Ervin, e di altre facoltà. Le giornate passavano in un intenso lavoro di ricerca e di attesa, di silenzi e passeggiate, di enormi solitudini e di viaggi su e giù per quella città.
Forse il mio amore per Budapest deriva dal fatto che in quella solitudine in cui mi sono trovato a vivere, lei, è stata la mia unica compagna. Vivevo parlando con la sua storia, i palazzi, i personaggi che avevano scritto le pagine di quella gloriosa nazione, conosco ogni vicolo di quella città, ogni pietra o linea dei bus, ero un passante muto che usciva la mattina di casa con l’unico impegno di dover camminare per far passare in fretta un’altra giornata vuota.

Ma Budapest non è stata solo la città della mia solitudine. C’è stata quella del 2006, della cattedra come professore di Storia e Cultura dei Popoli Nomadi all’università Elte, era la Budapest del mio primo impiego in una multinazionale, lavoro che ho continuato a svolgere sino al 2009. Una nuova realtà, una città vissuta non da straniero, ma da membro attivo della comunità. Molti amici, colleghi, e tanti ricordi splendidi che davano un nuovo volto a quel centro che ha saputo cambiar identità mostrandosi sempre per quello che non era, ma che ogni volta si è lasciata amare come tenera amante.

Se guardo indietro, non riesco a fare una foto precisa di questa città, davanti ai miei occhi scorrono i visi di tutte quelle persone conosciute durante i miei soggiorni, amici che ancora sono al mio fianco, ed altri di cui non ricordo neanche più il nome, ma ognuno di loro è stato un tassello della mia vita,  per un certo periodo ne ha fatto parte, ed ha condiviso con me un pezzo di strada. Ora, non credo importi tanto che noi si sia ancora in contatto, credo che il vero tesoro risieda in ciò che ogni persona mi ha lasciato, delle lunghe chiacchierate e dei momenti trascorsi insieme.

Adesso che sono in Sicilia, Budapest resta la città ideale, quella che ogni giorno smonto e rimonto nei miei pensieri, è la città dove sogno di tornare per poterla veder crescere; si, perché come una figlia che non si vede per molti anni, assisto da lontano ai suoi mutamenti, ed ogni volta che ci torno trovo una piazza cambiata, un monumento restaurato, e mi sento quasi in colpa per non esser stato li presente durante un momento così importante per la mia città adottiva.

Ma forse tutta questa bellezza è solo una mia convinzione, un mio idealizzare un luogo esotico dove ho condiviso parte della mia vita. Forse Budapest è solo un’idea come un’altra, un’idea di un luogo che non c’è, eppure io ci sono stato, l’ho amata e ne sono rimasto rapito. Ho viaggiato al suo interno, sia nel tempo che nello spazio, ho assorbito la sua magia e l’ho eletta a dimora dello spirito. Del resto, ad amare un luogo non c’è nulla di male, ed io ho scelto Budapest come patria adottiva e luogo in cui fuggire è sempre dolce.

domenica 25 settembre 2011

11 Settembre e la sindrome dell'Io c'ero!

Anche quest’anno è arrivato l’11 Settembre, e come sempre ci troviamo a dover, non tanto rivedere quelle scene passate ormai alla storia, ma di dover ascoltare, senza che avessimo posto la domanda, osservazioni del tipo: “Io in quel momento stavo facendo…”

Per esser brevi, tutte le persone con cui finisco a parlare delle torri gemelle, tendono a dirmi cosa stessero facendo nel momento in cui videro per la prima volta le immagini in TV.

Ho sempre trovato questa cosa singolare, ma il fatto che tutti ne parlano significa qualcosa.

Anche persone appena conosciute, mi confessano questo particolare che trovo molto personale, perché riguarda un aspetto della vita privata, il dove si era e cosa si stesse facendo in quel momento.

In pratica, mi raccontano un fatto privato ed inutile ai fini storici, uno di quei fatti a cui viene spontaneo pensare: “ ma che cavolo me ne frega di costa stavi facendo tu a quell’ora?”

Pensateci un attimo, non è successo anche a voi? Tutti abbiamo detto o sentito questo genere di testimonianze centinaia di volte.

Ho iniziato così a cercare le cause di questo fenomeno. E mi sono soffermato su tre possibili risposte:

Forse, compresa la grandezza del momento storico appena vissuto, ogni persona ha avuto bisogno di testimoniare la propria presenza, così in quegli attimi terribili, si crea un legame diretto tra lo spettatore e quella finestra impenetrabile della televisione, cioè la scena che si sta vivendo. In quelle ore esistevamo solo noi ed il dramma. Un legame personale, che in qualche modo doveva essere rafforzato, ma essendo solo osservatori passivi, potevamo solo afferrare la nostra realtà, che in molti casi era un comodo divano, magari accompagnato da un caffè o un gelato. In pratica il succo del discorso sembrerebbe questo: io c’ero, e per dimostrartelo ti dico dove ero esattamente e cosa stavo facendo un attimo prima che il mondo cambiasse.

L’altra causa potrebbe essere un contrasto. Eravamo tutti comodamente seduti in prima fila a fissare l’orrore. Forse l’atmosfera di un caldo pomeriggio assonnato di settembre ha cozzato con le immagini intrappolate nella scatoletta. Un po’ come quando a cena guardiamo le immagini dei bambini che in Africa muoiono di fame, e nel mentre addentiamo un pezzo di carne dicendo: “il mondo va a puttane.”

Infine, credevo che il fatto di ricordarsi esattamente il cosa si stesse facendo in quei momenti, fosse legato ad una forma di shock. Quando infatti siamo vittime di un incidente, spesso, ricordiamo con esattezza ciò che stavamo facendo un attimo prima che il fatto accadesse. Memorizziamo così le parole, le immagini, ogni cosa che normalmente tenderemmo a dimenticare. In questo caso, la notizia e le immagini dell’attacco sono state così forti che il nostro cervello ha impresso ogni cosa, riuscendo così a dare un tratto indelebile all’inizio di quella lunga giornata.

Questa ultima teoria mi sembrava la più campata in aria, anche perché era stata dettata (come poi le altre) da un mia impressione, da dei semplici ragionamenti, e non da una conoscenza specifica della mente umana.

Invece in questi giorni ho avuto la risposta, risposta che ci riguarda tutti perché ci rende chiaro qualcosa che non capivamo pur avendolo vissuto.

L'amigdala è un gruppo di strutture interconnesse, a forma di mandorla, posto sopra il tronco cerebrale vicino alla parte inferiore del sistema limbico.

Queste strutture limbiche compiono gran parte del lavoro di apprendimento e memorizzazione svolto dal cervello; l'amigdala è specializzata nelle questioni emozionali: se viene tolta dal resto del cervello, il risultato è una evidentissima incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi.

In pratica, oltre al cervello ed al cervelletto abbiamo pure queste due mandorle le quali sono la sede centrale del nostro istinto di sopravvivenza e conservazione, il luogo che ci collega ancora agli animali.

Il cervello, ed in particolare la neocorteccia, ha il compito di elaborare gli influssi esterni, le informazioni, valutarne l’entità e rispondere ad essi nella maniera più appropriata, questo è un progesso logico e spesso lento. Il cervello analizza in modo lento, completo e razionale ciò che ci accade attorno.

Nel caso in cui invece ci venissimo a trovare in una condizione di emergenza improvvisa, ad esempio un botto alle nostre spalle, avremmo una reazione istintiva, un salto, un urlo, in alcuni casi cominceremmo a scappare, ed avremmo tutta una serie di conseguenze fisiche che vanno dal sudore all’accelerazione improvvisa del battito cardiaco.

Queste reazioni non sono ragionate, ma istintive e vengono regolate dall’amigdala, essa avendo il compito di proteggerci, riesce momentaneamente a scollegare il cervello, ed a prendere il controllo del nostro corpo, in pratica ci fa agire in modo istintivo per salvaguardarci.

Avete presente il detto “non ci vedo dalla rabbia”? Avete presente quelle brave persone che in preda ad un raptus uccidono la moglie durante un litigio? Beh, non sono pazzi o criminali, ma si sono venute a creare delle condizioni tali che l’amigdala prendesse il possesso del nostro corpo e ci spingesse a compiere un delitto pur di garantire la nostra sopravvivenza.

Per questo, in seguito, l’omicida dice di non ricordarsi nulla, o comunque comprende il peso del suo gesto solo a fatto già compiuto.

L’amigdala ha anche il compito di immagazzinare una serie di informazioni riscontrate durante dei momenti negativi della nostra vita, ad esempio tutto quello che accadeva durante e qualche istante prima di un incidente automobilistico.

Di norma chi ha subito un trauma ricorda tutto quello che gli sia successo, e spesso, sentendo un suono od un odore, può facilmente riportare in superficie quei momenti tragici. Anche se sembra assurdo, di traumatico c’è ben poco, anzi, l’amigdala cerca sempre di collezionare più informazioni possibili riguardo ad un dato evento, in modo tale da poterle mettere in relazione nel caso in cui si dovessero riproporre le stesse condizioni, invitandoci quindi alla prudenza.

Per assurdo, quello che per noi è un trauma spesso indelebile, altro non è che il modo migliore per sopravvivere.

Volete sapere cosa accadde quel pomeriggio dell’11 di Settembre?

Semplice, il vostro cervello ha subito intuito la vastità del dramma, che anche se in modo indiretto, aveva colpito ogn’uno di noi, così l’amigdala ha immagazzinato tutte le informazioni riguardanti quei momenti. Il problema è l’incapacità di distinguere ciò che è realmente importante da quello che non lo è, quindi assimila tutto, voci, odori, quello che si stava leggendo, il discorso che stavi portando avanti con un tuo amico. Tutto è stato accumulato e memorizzato.

In una società primitiva, in cui l’uomo era a contatto con la natura, la registrazione di ogni evento esterno era di fondamentale importanza, questo serviva a richiamare alla memoria questi indizi nel caso ci si trovasse in condizioni simili. Pensate ad esempio ad un cavernicolo che si fosse trovato nel bel mezzo di un temporale improvviso, non trova riparo, così vedendo un albero cerca di raggiungerlo, ma qualche metro prima di arrivare a destinazione un enorme luce lo abbaglia, un boato lo rende sordo, e vede l’albero prender fuoco. In pratica un fulmine ha colpito il suo riparo e per poco non è morto. In questo caso l’amigdala ha immagazzinato tutte queste informazioni, ovvero, la pioggia, l’albero, il suono, la luce, il fuoco. Tutti fattori che verranno richiamati alla mente non appena il cavernicolo si troverà nuovamente nelle stesse condizioni.

Ma al giorno d’oggi, memorizzare l’ambiente esterno è del tutto inutile, e capita spesso di collezionare una massa di dati che finiscono per diventare un ricordo traumatico ed indelebile. Questo avviene in quei bambini testimoni del divorzio dei propri genitori e di tutti i litigi che lo hanno preceduto. Il cervello memorizza questi fattori che per lui sono qualcosa di pericolo (per un uomo primitivo magari gli stessi fattori sarebbero stati un branco di lupi), così il nostro bambino resterà perennemente traumatizzato, crescerà con numerosi dubbi, non crederà nell’amore e nel matrimonio, soffrirà di senso di abbandono, ed avrà un pacco di problemi relazionali. Questo anche perché noi crediamo che sia un trauma, e la società c’è lo fa credere, così entriamo in un circolo vizioso e ci sentiremo a vita traumatizzati, invece non è così, e semplice memoria.

Purtroppo tendiamo a ricordare solo le cose negative, perché servono alla nostra sopravvivenza, questo ci causa dei problemi.

Un consiglio? Per i traumi lievi (per quelli grossi consultate uno specialista), pensate solo che si tratta dell’amigdala che ha memorizzato il fatto.

Il vostro cervello e le vostre emozioni sono del tutto operative, non avete nulla di storto, quello che vi portate dentro è solo frutto della società che vi ha fatto credere che un trauma vi segnerà per tutta la vita. Questo è solo un effetto dell’amigdala che cerca di proteggervi, per evitare che i figli cadano negli stessi errori dei genitori, per far si che noi si diventi più saggi e per evitare che la storia si ripeti ancora.

lunedì 30 maggio 2011

Se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo cambiare le cose

In Sicilia, ed in particolar modo a Caltanissetta, non cambierà mai nulla. Del Gattopardo noi Siciliani abbiamo appreso la lezione più pessimistica ma anche la più comoda, ovvero quel “tutto cambi perché nulla cambi”, dietro il quale noi isolani amiamo nasconderci.
Ma questo ormai lo sappiamo bene, CL non ha futuro, è un posto da cui fuggire, nulla potrà mai cambiare, ed ancora bla bla bla…
Chiarita ed archiviata questa cosa, io credo, dico e spergiuro, che le cose non cambiano da sole.
Quando il Siciliano Doc, esordisce con il suo: “in Sicilia non cambierà mai niente”, lo dice come se lui non abitasse su quest’isola, e come se non fosse parte di quel sistema che tanto denigra.
Il nostro dramma è quello di aspettare sempre che siano gli altri a fare le cose; che qualcuno migliori la Sicilia, che qualcuno si ribelli ai politici mediocri, che qualcuno ci dia o ci trovi il lavoro. Sembra proprio assurdo per i Siciliani il rimboccarsi le maniche per provare a cambiare le cose, anche in questo caso, diranno o si sentiranno dire, che c’è la burocrazia, che il territorio è ostile, che c’è la mafia, etc etc etc… insomma, nel bene e nel male ogni discorso logico porta il Siciliano alla stessa conclusione, cioè che qui non si può fare nulla e che l’unica alternativa è emigrare.
Ma perché al Nord tutto (o quasi) funziona? Ve lo siete mai chiesti? Di sicuro abbiamo mitizzato il “continente” come terrà dove basta arrivare con le valigie di cartone per avere la carriera spianata, ma è anche vero che la sua ricchezza risiede proprio nell’intraprendenza della gente che crea e si crea opportunità.
Secondo voi, tutto quello che tanto ci piace del Nord, cresce spontaneo come i funghi? O è forse che lì la gente ha deciso di prendere in mano la loro vita e farne qualcosa di produttivo?
Finché resteremo a guardare ed a lamentarci nulla potrà mai cambiare, finché saremo diffidenti gli uni con gli altri, non riusciremo mai ad unirci per lavorare allo stesso progetto.
Bisogna credere nella Sicilia e nel suo cambiamento, dobbiamo progettare e metterci in gioco, altrimenti come pretendiamo che le cose cambino se non siamo noi i primi ad investire tempo e cuore?
Quello che più avvilisce dell’essere Nisseni è la continua divisione e frammentazione in realtà piccole che mai potranno farcela da sole, è l’invidia che porta sempre ad attaccare l’operato degli altri qualunque esso sia, è quell’ottusità che porta certi commercianti a mandare dei controlli di polizia alla concorrenza solo perché le cose gli stanno andando bene, senza pensare che più aziende ci sono migliore sarà la salute dell’economia.
Non voglio fare adesso l’elenco delle cose che vanno male a CL, perché finirei anch’io per cadere nella rete della sterile lamentela. Quello che vorrei far capire ai miei concittadini è che “se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo cambiare le cose”, altrimenti non usciremo mai dal pantano in cui ci siamo ficcati.
Concedetemi un’ultima frase che forse potrà sembrare una provocazione: visto che ammiriamo tanto il Nord per le sue opportunità, cominciamo a fare quello che loro da anni ci consigliano di fare in tono del tutto onesto e non razzista come potrebbe sembrarci: “Andiamo a lavorare”.
Perché che ci piaccia o no, quello che qui manca è il concetto di imprenditoria, ovvero il credere in un progetto e rischiare per esso come fanno altrove. Le interminabili chiacchierate non servono più, adesso è il tempo dell’azione, bisogna alzarsi ed agire prima che sia troppo tardi per noi, per Caltanissetta e per la Sicilia intera.