domenica 29 marzo 2020

Pensieri in quarantena sulla Sicilia

Utilizzando spesso un vecchio luogo comune, amiamo dire che i siciliani sono isole nell’isola e che ogni città o paese, a suo modo, è un’isola a se stante nel panorama di questa enorme massa ti terraferma che ama paragonarsi in qualche modo al mare.
Eppure mai come in questi giorni questa emergenza virus ci ha trasformati tutti in isole, siamo diventati un grande arcipelago chiusi nelle nostre case, in scatole che fino a qualche settimana fa vivevamo come luoghi di passaggio, presi da una frenesia che ci faceva abitare i nostri spazi solo la sera o nei fine settimana.
Oggi invece siamo tutti qui, catapultati all’improvviso in una realtà vista solo nei film o immaginata nei peggiori scenari della Protezione civile. Un cambiamento così rapido che in molti non lo riescono ancora a realizzare, così abituati alle nostre piccole routine fatte, alla fine, di momenti semplici, di contatti umani e di senso di libertà.
Come attraversa la Sicilia questa nuova dimensione? Forse come il resto d’Italia. Noi così abituati a vivere una quotidianità dove l’onirico di mescola al reale, siamo oggi come risvegliati dal nostro tempo del sogno e ci ritroviamo inspiegabilmente con i piedi per terra.
Costretti a eseguire gli stessi ordini del resto del Paese, uniti per la prima volta grazie alla disgrazia, abbiamo abbandonato il nostro quotidiano fatto di piaceri, di cibi lussuriosi, di passeggiate in giardini dal gusto esotico. Abbiamo svestito i panni di semidei, di cui abbiamo amato vestirci in questi secoli, per diventare persone comuni quasi mortali, perché se da un lato il siciliano ha un legame forte con la morte è anche vero che si crede immortale consapevole di essere nato nella terra votata al Dio Apollo.
Allora questo virus è caduto sulle nostre vite come un fulmine lanciato direttamente da Zeus per scompigliare le carte sul nostro tavolo, siamo adesso spettatori delle nostre stesse esistenze, e viviamo un dramma collettivo, chiusi in noi stessi, nelle nostre solitudini, incapaci di abbracciare anche i nostri cari e inconsapevoli di quando torneremo a farlo.
Del resto la domanda che ci chiediamo tutti non è tanto quando torneremo alla normalità, ma se mai ci torneremo e a che condizioni. Quando potremo ricominciare a frequentare luoghi affollati senza il terrore del contagio? Quando potremo abbracciarci con naturalezza?
Improvvisamente la paura ha pervaso il nostro quotidiano e con essa la solitudine, due stati d’animo con cui stiamo imparando a convivere insieme all’ignoto.
E queste isole diventano ogni giorno più impenetrabili, più ci allontaniamo da ciò che eravamo più sprofondiamo in noi stessi, nei silenzi, nello stare giorni senza vedere qualcuno, attaccati più che mai ai nostri telefonini, unico cordone ombelicale col resto del mondo.
Forse siamo ancora all’inizio della tempesta, o forse tutto si calmerà tra poche settimane, di certo noi tutti ne usciremo cambiati e con noi sarà cambiata anche la società. La speranza che portiamo tutti in cuore è che sia l’occasione per una rinascita prima di tutto morale poi del nostro modello occidentale, perché anche se sappiamo che il virus nasce per caso, abbiamo capito che la sua forza propulsiva è stata dovuta proprio al mondo che abbiamo creato, un luogo veloce, iperconnesso, sovraffollato, ma incapace di tutelare i suoi abitanti.
Se perderemo anche questa occasione avremo vanificato il sacrificio di migliaia di persone, e tutto il dolore che in questi giorni stiamo provando, sarà stato inutile.

Foto: Nicolas Raymond

Nessun commento:

Posta un commento